IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, sollevata dal pubblico ministero nel processo penale n. 5846/17/97 a carico di Attanasio Ciro piu' 8, in relazione agli artt. 3, 101, 112 Costituzione. Sentite le parti. La questione di legittimita' costituzionale di cui all'epigrafe appare rilevante ai fini della decisione nella presente vicenda processuale e non risulta manifestamente infondata. Osserva La rilevanza La vicenda di cui all'attuale processo trae origine dalle indagini esperite dai C.C. di Sessa Aurunca nel corso del 1996 in ordine alla esistenza di una associazione a delinquere tesa al compimento di numerosi furti di gasolio per uso termico presso edifici scolastici al fine di rivendere lo stesso per uso autotrazione nella zona del Giuglianese. All'esito della istruttoria dibattimentale esperita, l'imputato Attanasio Ciro, alla udienza del 23 aprile 1998, si avvaleva della facolta' di non rispondere e, pertanto, ai sensi dell'art. 513 c.p.p., il p.m. richiedeva l'acquisizione agli atti delle dichiarazione rese dallo stesso, in data 17 aprile 1996, alla p.g. con l'assistenza del difensore di fiducia. In tali dichiarazioni l'imputato riferiva con precisione di alcuni specifici episodi di sottrazione di gasolio indicando i soggetti, alcuni dei quali oggi coimputati, che erano coinvolti nella commissione di questi delitti e di altri delitti aventi sempre lo stesso oggetto, inoltre egli forniva indicazioni circa la illecita provenienza degli autocarri utilizzati per il trasporto del gasolio e le modalita' di occultamento degli stessi. Il complesso di tali dichiarazioni appare, a parere del collegio, sicuramente rilevante ai fini della decisione del processo, in quanto consente, valutato in riferimento alle altre emergenze processuali, di esprimere compiute valutazioni in ordine alla sussistenza o meno di mezzi comuni finalizzati al compimento dei furti oltre che sulla eventuale adesione di ciascuno dei singoli imputati al programma criminoso perseguito dal sodalizio. Deve a questo punto osservarsi che, alla luce della novella introdotta dalla legge dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, modificativa dell'art. 513, comma 1, c.p.p. il collegio dovendo pronunciare l'ordinanza di cui all'art. 511 c.p.p. dovrebbe dichiarare la non utilizzabilita' delle dichiarazioni rese dall'imputato "nei confronti di altri senza il loro consenso" consenso che, nella fattispecie, non e' stato fornito. Appare dunque del tutto evidente che ai fini della decisione del processo il collegio non puo' avvalersi, allo stato della normativa vigente, di quanto riferito alla p.g. dall'Attanasio Ciro allorquando vigeva altra disciplina normativa in tema di utilizzabilita' delle dichiarazioni del coimputato. Il complesso di tali considerazioni induce dunque, affermata la rilevanza della questione nella fattispecie presa in esame dal tribunale, di passare a valutare la fondatezza della stessa. La non manifesta infondatezza La novella dell'art. 513 c.p.p., introdotta dalla legge 5 agosto 1997, n. 267, ha inteso ripristinare il principio di formazione della prova in dibattimento, basato sul pieno dispiegamento del contraddittorio, cardine fondamentale del nuovo processo penale. L'esigenza dell'accertamento della verita', e' stato affermato dai relatori durante i lavori parlamentari per l'approvazione della legge, non puo' comportare una rinunzia a questo principio, cosi' come risulta dalla lettura dell'articolo 513 c.p.p., modificato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 254/92. L'imputato che durante il dibattimento sia contumace, assente o rifiuti di sottoporsi all'esame, non consente che si dispieghi quel contraddittorio in relazione alle dichiarazioni da lui rese al p.m., alla p.g. su delega del p.m. o al giudice nel corso delle indagini preliminari. La possibilita' dell'acquisizione con la vecchia normativa, delle dichiarazioni da lui rese in quella sede e della loro utilizzabilita' ai fini' della decisione, costituisce non solo una rinunzia all'oralita' del processo ma viola il diritto di difesa degli eventuali coimputati che egli abbia accusato. La modifica dell'art. 513 c.p.p., dunque, ha inteso correggere tale distorsione e consentire il dispiegarsi della difesa da parte di coloro che da quelle dicharazioni possono essere lesi nell'ambito dello stesso processo. Sotto questo aspetto il tribunale deve concordare con l'esigenza ispiratrice della normativa introdotta con la novella del 1997, pienamente aderente ai principi ispiratori della legge delega del nuovo codice procedurale. Del resto il legislatore ha creato diversificati meccanismi perche' il p.m., durante le indagini preliminari, possa salvaguardare anche il principio di non dispersione degli elementi di accusa, introducendo la possibilita' ampliata di richiesta di incidente probatorio (art. 4 legge 267/97), la possibilita' di interrogatorio dell'imputato con le forme del contraddittorio durante l'udienza preliminare (art. 2 legge citata) ed infine prevedendo nella norma transitoria di cui all'art. 6 la possibilita', ove non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio, di richiedere, entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della nuova legge, l'esperimento dell'incidente probatorio anche dopo l'esercizio dell'azione penale. Meccanismi questi tutti tesi alla salvaguardia del principio dell'affidamento della prova e dell'esigenza, piu' volte ribadita sia dalla Corte di cassazione che dalla Corte costituzionale, dell'accertamento della verita' in modo che la "verita' sostanziale aderisca, nella massima misura possibile, alla verita' processuale". Certo, anche con questi meccanismi il comma 1, dell'art. 513 c.p.p., come novellato, presenta alcuni problemi applicativi, poiche', ad esempio, lascia all'imputato la facolta' di non rispondere ogniqualvolta lo ritenga opportuno e dunque in relazione, ad esempio, all'incidente probatorio egli potra', pur dopo aver reso dichiarazioni accusatorie nei confronti dei coimputati dinanzi al p.m. avvalersi della facolta' di non rispondere, rendendo vano, cosi', quel principio di affidamento della prova che si voleva salvaguardare. Tale discrepanze potranno in futuro essere modificate dal legislatore ma non possono allo stato essere oggetto di valutazione da parte di questo collegio. Ben diversa e' invece la situazione in cui le dichiarazioni accusatorie dell'imputato nei confronti di coimputati, siano state ritualmente assunte, con le garanzie della difesa, dal p.m. o dalla p.g. su delega del pubblico ministero o innanzi al giudice delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, sotto la vigenza della precedente normativa ed il procedimento, con il rinvio a giudizio, sia ormai pendente innanzi al tribunale per il dibattimento. In questo caso l'immediata applicabilita' dell'art. 513 c.p.p., come novellato, impedisce, quando l'imputato sia contumace o assente o si avvalga della facolta' di non rispondere, l'utilizzazione contra alios delle dichiarazioni predibattimentali, a meno che non vi sia il consenso degli altri coimputati. Analoga situazione, ai sensi dell'art. 513, comma 2, c.p.p. novellato, viene a crearsi per l'imputato in procedimento connesso o collegato, ex art. 210 c.p.p., per cui e' possibile la lettura ed utilizzazione delle dichiarazioni rese ritualmente dallo stesso in sede predibattimentale quando il dichiarante si sia avvalso della facolta' di non rispondere durante il processo, solo con l'accordo delle parti. Qui la differenza, rispetto alla situazione oggetto dell'odierna valutazione, e' data solo dallo status del dichiarante e non dalla condizione oggettiva delle dichiarazioni o dalla natura del reato. Si impedisce cosi' l'utilizzabilita' delle dichiarazioni di coloro che si siano avvalsi del diritto al silenzio, a meno che tale preclusione non sia rimossa dal consenso di coloro che da quelle dichiarazioni accusatorie potrebbero essere lesi nella loro posizione processuale. Nella relazione alla novella n. 267/97 si legge che tale consenso esprime una rinunzia alla oralita' del processo, principio non imprescindibile (l'oralita' anche secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 255/92 non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo della formazione della prova al dibattimento), ma non al contraddittorio, che si realizza con quella sola espressione di volonta'. Con tale assunto questo tribunale non puo' concordare, alla luce dei principi espressi dalla nostra Costituzione e dell'interpretazione delle norme procedurali espressa dalla Corte costituzionale con le successive pronunzie relative alla normativa in esame, tra le quali fondamentale e' la sentenza n.254/92. In primo luogo e' evidente che l'obbligatorieta' dell'azione penale prevista dall'art. 112 della Costituzione e la soggezione del giudice solo alla legge, prevista dall'art. 101 Cost., non sono compatibili con il mutamento di una regola procedurale che modifichi la valenza dell'attivita' del p.m. esplicatasi ritualmente nella vigenza di una pregressa procedura. Invero tali principi costituzionali, anche alla luce dell'art. 76 della legge delega per il nuovo codice di procedura penale, sanciscono il principio della non dispersione degli elementi di prova raccolti dal p.m. nell'esercizio della sua attivita' d'indagine, soggetta solo al principio previsto dalla legge del tempus regit actum e creano, dunque, per l'organo della pubblica accusa, anche in relazione all'obbligo di esercitare l'azione penale, un principio di affidamento della prova che non puo' essere modificato, quando egli non e' piu' facultato ad adeguare la propria attivita', gia' ritualmente esplicatasi, all'intervenuto mutamento legislativo. In secondo luogo viene violato l'equilibrio tra il principio del contraddittorio e quello della non dispersione dei mezzi di prova, regola di un giusto processo, teso all'accertamento della verita' in quanto, mentre viene pienamente salvaguardato il primo, non vi e' nessun meccanismo rimesso solo alla legge per evitare che l'attivita' del p.m. sia vanificata, sottraendo cosi' l'attivita' giudiziaria a quella soggezione alla sola legge, prevista dall'art. 101 della Costituzione. Lasciare al consenso di una parte la validita', rectius la utilizzabilita', di un mezzo di prova appare del tutto incompatibile con tale norma costituzionale, quando non siano stati apprestati idonei meccanismi per il raggiungimento del fine del processo che e' quello di adeguare nel massimo possibile, la verita' storica a quella processuale. Sul punto la Corte costituzionale si e' piu' volte pronunziata (cfr., sentenza n. 111/93, n. 255/92, n. 258/91) con cui e' stato affermato che il sistema del nuovo codice di procedura deve consentire al giudice di addivenire ad una giusta decisione, che fa salvo il principio del libero convincimento e che ha come fine primario ed ineludibile quello della ricerca della verita', intesa in senso storico e non meramente processuale. Del pari non puo' sottacersi l'incostituzionalita' della norma, ove sia immediatamente applicabile anche a giudizi le cui indagini preliminari si siano svolte con la precedente normativa in riferimento al principio di uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge. Va qui, infatti, richiamato il principio fondamentale del codice che prevede la piena utilizzabilita' dell'atto divenuto irripetibile (vedi anche la sentenza della Corte costituzionale n. 254/92). Questo concetto non puo' essere differentemente valutato a secondo che la causa di irripetibilita' sopravvenuta sia naturale o riconducibile alla volonta' del coimputato. La diversificazione della disciplina vede trattata in maniera diseguale le diverse cause d'irripetibilita', creando un'irragionevole disparita' di trattamento tra l'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite prima del dibattimento, in assenza di contraddittorio, divenute irripetibili per cause naturali (decesso o infermita' del dichiarante) che le rendono pienamente utilizzabili e l'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite prima del dibattimento, in assenza di contraddittorio, divenute irripetibili per la propria volonta' (la mancata prestazione del consenso oggi prevista dal nuovo articolo 513 c.p.p.). E' evidente la situazione di minore salvaguardia, in relazione all'art. 3 della Costituzione della prima situazione. La valutazione dell'irripetibilita', come concetto unitario e' stata piu' volte ribadito dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 179/94, nel respingere una questione di legittimita' costituzionale, ha osservato che l'esercizio in dibattimento del diritto di astenersi dal rispondere da parte del teste - prossimo congiunto - che in sede d'indagini aveva reso dichiarazioni, costituisce un'oggettiva e non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo, donde la sua acquisibilita'. Tale statuizione fissa un principio fondante in tema di formazione della prova che deve essere ribadito in ogni evenienza di irripetibilita' di dichiarazioni ritualmente acquisite, siano esse provenienti da un testimone (come nel caso della sentenza citata), dai soggetti di cui all'art 210 c.p.p., che assommano in loro la qualita' di imputato e testimone (art 513, comma 2, c.p.p.), quanto infine dagli stessi coimputati. Invero la formazione della prova e' principio diverso da quello della sua valutazione, qui si' diversificata a secondo della qualita' soggettiva di coloro che rendono dichiarazioni. Ancora con riferimento alla contraddittorieta' della norma in relazione all'art. 101 della Costituzione va osservato che appare poi del tutto irragionevole lasciare il possibile accertamento della verita' ad una scelta arbitraria ed incontrollabile del coimputato, in nome della salvaguardia del principio del contraddittorio. Contraddittorio solo apparente posto che la nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p. afferma poi che e' sufficiente a realizzarlo il mero consenso all'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali rese dall'imputato che si sia avvalso della facolta' di non rispondere. A questi principi si e ispirata la Corte costituzionale quando, con la sentenza del giugno 1992, ha affermato l'incostituzionalita' dell'articolo 513, comma 2, c.p.p., in relazione all'articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui, nella sua prima formulazione, non prevedeva il recupero e l'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali dei soggetti di cui all'art. 210 c.p.p., che si fossero avvalsi nel dibattimento della facolta' di non rispondere. Nel corpo della sentenza la Corte costituzionale ribadiva che l'unico meccanismo possibile per la salvaguardia della parita' di trattamento tra i vari imputati era quello previsto dal comma 1, dell'art. 513 c.p.p. allora vigente per le dichiarazioni rese dall'imputato, sempre utilizzabili quando questi, nel dibattimento, si fosse avvalso della facolta' di non rispondere. Questo collegio dunque ritiene la non manifesta infondatezza della questione sollevata in relazione alla immediata applicabilita' dell'art. 513 c.p.p. ai processi le cui indagini preliminari si siano svolte in costanza della previgente normativa, in relazione ai gia' citati articoli 3, 101 e 112 della Costituzione per le motivazioni sopra svolte.